Sebastiano Messina

Intrasguardi

fotografie di Sebastiano Messina

 

                recensioni

         

Ad_Limia

 

 

 

Agia_Panagia

Le foto di Sebastiano Messina si intraguardano o ‘intrasguardano’ come fossero micromondi compositi, versicolori superfici traforate o ‘sfondate’ verso un altrove. Foto secondo incantati patterns che possiamo attraversare con uno sguardo quasi di voluttà per il loro evidente carattere teatrale, di artificio visivo e per scoprire che cosa c’è oltre l’immaginaria ‘quarta parete’, come appunto se dovessimo varcare il confine tra un esterno e un interno, o tra un dentro e un fuori, oppure tout-court tra un fuori e un fuori.     

Perché l’immagine qui è sempre duplice o molteplice, come in una mise en abîme la rettangolare cornice dello scatto contiene sempre altre cornici, altri riquadri e ritagli od ovali che spostano o deviano la linea dell’occhio in un gioco di immagine su immagine, di immagine al quadrato o al cubo che tradisce la matrice neobarocca di Messina. La sua arte fotografica ha anche una palese ascendenza pittorica che fa subito pensare, ad esempio, a  Las meninas di Diego Velázquez, al suo conturbante intreccio di figure, al suo sofisticato, sottile rimando di immagini che rimbalzano da un punto all’altro della tela a significare la strutturale equivocità del punto di vista, il raffinato illusionismo dell’arte della visione.

In “Naufragio a Navarrino” dal buio locale in primo piano si trapassa il velatino delle pieghe di una tenda smossa da un alito di vento e si intrasguarda la veduta parziale del relitto arrugginito e reclinato da un lato di una nave mercantile come confitta nell’azzurra bonaccia marina: pura poesia simil-conradiana che pare celebrare la corrosione del tempo entro l’imperturbabile, forse indifferente persistenza della natura. Così in “Orizzonte” la visione sbatte contro una porta murata, ma anche qui i segni del tempo sono marcati dalle larghe chiazze dell’intonaco caduto che discoprono la trama del mattonato rosso come le oscene viscere edilizie del fatiscente palazzo. Che la fotografia sia sempre implicata con le enigmatiche diffrazioni del tempo ce l’ha, del resto, insegnato Roland Barthes (La chambre claire) quando annotò “È morto e sta per morire” in un lapidario commento (nel 1980) al vivido ritratto del condannato a morte Lewis Payne scattato da Alexander Gardner nel 1865.

Del pari, in “Perché” le sbiancate foto mortuarie di una coppia ottocentesca o in “Emma” l’allucinato, quasi diabolico mezzobusto della bambina biancovestita inscritta nella muffita pietra sepolcrale, ci sogguardano quasi a chiederci ragione di un essere passati nell’aldilà, continuando ad autorappresentarsi permanentemente nell’aldiqua: sono morti e insieme nell’immagine non muoiono mai. Anche l’effigie screpolata e malridotta di Gesù col ‘sacrocuore’ ci intraguarda placida o perplessa in “Agòn(ia)”, mentre a sinistra uno scorcio del suo nudo braccio crocefisso attesta la perennità e immobilità di un martirio come eterno sigillo di una fede che vorrebbe oltrevalicare il tempo e, invece, non si libera della sua maledizione, di un ossessivo ‘memento’ di sangue. Altre immagini sacre smaltate o ceramicate da mercatino devozionale cheap affollano in “Leros” l’angolo di una stanzetta con tanto di fiori di plastica, ma la via di fuga e/o di salvezza si apre oltre i vetri della finestra che affaccia su un orizzonte di mare e di roccia; là, laggiù si può ascoltare il respiro profondo del paesaggio che nulla ha (fortunatamente) di antropocentrico, ātman universale, materia geocentrica o liquida o aeriforme che pulsa nel flusso del tuttoniente. Ben oltre la madonnina col bambinello e le ballerine da carillon intraguardate nella vetrinetta di “Agia Panagia”, si trova allora un rifugio quasi idillico nel cortiletto di “Xios”, dove al di là di un basso cancello in legno si vede tra ciuffi di piante, di edera rampicante e in mezzo a un muro a secco dipinto di celeste, il nero rettangolo di un ingresso, quasi l’introibo verso un antro casalingo, verso un materno utero dove reinfetarsi, magari sperando di rinascere in un mondo depurato dalla follia e dall’errore (e l’orrore).                        

È negli scarti visuali di una Grecia contemporanea, erede della più lucidamente filosofica e sofopoetica e antica civiltà mediterranea, che Messina mi sembra abbia ricercato le tracce di bellezza delle cose ‘perdute di vista’. Attraverso il suo smaliziato, creativo occhio fotografico misuriamo cadenze e decadenze del tempo, forse in attesa di tempi migliori che non vengono mai.    

 

Marco Palladini