Patrizia Pasqui

Patrizia Pasqui

L’attimo fuggente

 

        racconti

      - Quanto peserà? – si chiede il giovane, gli occhi sull’immagine di una macchina fotografica datata 1850, sul monitor del suo computer.  Per la risposta gli basta far scorrere la pagina: - Trenta chili, non poco - dice tra sé e pensa al signor Roger Fenton che trasporta quei trenta chili sui campi di battaglia in Crimea.  

Crimea.

Il giovane muove rapide le dita sulla tastiera, cambio immagine: google earth, fantastico, in un attimo sei in Crimea; cioè, non Crimea, oggi fa parte dell’Ucraina, ma nel 1853 si chiamava Crimea e fu teatro, appunto,  di una guerra.

Guerra di Crimea.

Wikipedia, ecco la schermata: guerra di Crimea, Russia zarista da una parte e dall’altra gli alleati: Gran Bretagna, Francia, Impero Ottomano e il regno di Sardegna.

Non è quello che il giovane sta cercando: la notizia che cerca - sta digitando veloce come digitano i giovani, il cervello sulla punta delle dita -  ecco ci siamo, la notizia che cerca l’ha  trovata: può appoggiarsi allo schienale e godersi la lettura. La notizia è questa, e cioè che “il governo britannico assieme a migliaia di uomini manda in guerra  la macchina fotografica”. 

- Giovanissima,  e già in guerra -  pensa il giovane; appoggiato  allo schienale, le braccia conserte, si mordicchia il labbro, è il suo modo di essere concentrato; è concentrato su un pensiero: la guerra era, e continua a essere, la più irresistibile e intrigante delle notizie, assieme allo sport.

La guerra di Crimea  non faceva solo notizia: era “scandalo”. Il Times di Londra aveva attaccato il comando militare per la sua incompetenza, mettendo in crisi il governo. I generali non l’avevano presa bene.  Il giovane si  immagina i generali: nella sua testa sono un po’ da operetta,  sopra le righe, tutti con la schiena dritta che battono il pugno pesante sul tavolo del quartier generale dove è stesa la mappa di Crimea;  in quel caso, sulla mappa, c’è il citato Times.

Ma il governo inglese ha una geniale trovata che ristabilirà la verità dei fatti in modo obiettivo, è il caso di dirlo. Il governo inglese arruola la macchina fotografica, per offrire a tutti – specialmente all’opinione pubblica scossa -  una visione più positiva. E manda in Crimea il fotografo Roger Fenton.

Il giovane guarda la foto di Roger Fenton sullo schermo; la salva in un file,  assieme  alle altre che metterà nel suo articolo.

Vede tutta la scena: Roger Fenton arriva in Crimea con la sua macchina; la posa - sono ben trenta chili;   rilegge gli ordini: “non fotografare i morti, i mutilati, i malati”. E allora che posso fare? - pensa Fenton -  Mi butto nella mischia, nell’azione… sì, con questi trenta chili? E chi convince quelli a stare fermi in posa  per il tempo di esposizione che mi serve?    

E Roger Fenton ha un’idea - il giovane continua a immaginarsi la scena -  Fenton piazza un po’ di sedie, chiama gli ufficiali, dice loro di sistemarsi, spazzolare giacche e stivali, curarsi i baffi, sedersi e mettersi in posa come indica lui, e soprattutto, soprattutto si raccomanda Fenton, stare immobili per 15 secondi. 

Il giovane fa scorrere sul monitor le foto di Fenton, le guarda, le salva:  si vede benissimo che in quelle foto di guerra non c’è la guerra; o meglio, è fuori dell’inquadratura. E sente la voce del  governo britannico, compostamente soddisfatto: - Thanks God! Questa sì che è la guerra!

Quella? Un club esclusivo e piacevole  per soli uomini.

- Per le foto di guerra - si dice il giovane -  dobbiamo aspettare - digita rapido – dobbiamo aspettare Brady.

Ed ecco la foto sul monitor:  Mathew Brady.

 

Mathew Brady è il  proprietario dello studio fotografico di ritratti più noto d’America.

Il giovane, appoggiato allo schienale, immagina di essere in quello studio. Vede Mathew Brady dietro la sua macchina: Brady pulisce gli occhiali, li inforca, è molto miope - non è il massimo per un fotografo - pensa il giovane -  ma questo non gli impedisce di  vedere lontano – insomma, inforca gli occhiali e guarda il soggetto davanti a sé, stagliato sullo sfondo bianco, illuminato perfettamente dalle lampade, fermo immobile, in posa: il presidente Lincoln. 

Brady approfitta dei tempi di esposizione ancora molto lunghi e dell’immobilità del soggetto per fargli una richiesta:

- Signor Presidente, vorrei fotografare la guerra - era la guerra civile americana – vorrei documentarla,  no, non si muova, fermo,   vorrei fare una specie di racconto della guerra. Fermo, ancora qualche secondo.   Ecco, ora si può muovere.

E Lincoln, che era un altro che vedeva lontano, disse: - Ok.

Brady non ebbe ordini come Fenton, né censure. Lui e i suoi fotografi scattano centinaia e centinaia di fotografie della guerra civile americana, e per la prima volta si vedono fotografati  dei morti in guerra.

Il giovane fa scorrere le fotografie sul suo monitor; si ferma su quelle di Gettysburg del 1863, ne salva alcune. La gente inorridiva davanti a quelle foto,  non perdonava a Brady di mostrare “orrendi dettagli”.

Ma Brady rispondeva alle critiche: - E’ vero - diceva, - sono “orrendi dettagli”, ma almeno che siano d’aiuto a evitare che un’altra calamità del genere si abbatta sulla nazione!-

Il giovane scuote la testa, si sente meno ingenuo di Brady, forse lo è:  - forse – si dice -  per quanto possiamo essere giovani – pensa ai suoi vent’anni –forse a volte  siamo più vecchi  dei nostri predecessori- si mordicchia il labbro e pensa che, ovviamente, quelle foto non potevano piacere; da fotografo qual è, il giovane sa che una foto, se vuoi che piaccia, se vuoi venderla, devi tener conto  che possa essere appesa in salotto e quelle non ce le puoi appendere. 

Inoltre,  quelle foto, non fermarono le atrocità della guerra.

Brady si indebitò fino al collo, per lui fu un’esperienza economicamente disastrosa.

Ma era nato il reportage di guerra.

 

Chiamata skype. Chi lo vuole? Il giovane riduce a icona Brady, apre skype, videorisponde. Sono guai: lo vede dalla faccia del caporedattore, per niente simpatica oggi. Il giovane comincia scusandosi:

-        Mi spiace, non ho ancora finito, mi manca poco.

-        Ma non devi scrivere un romanzo, porca puttana! Te l’ho detto, sintetico. Meno parole,  meglio è. Foto, foto, foto. Foto di macchine fotografiche accanto a corpi, corpi di donne. Fine.

-        Veramente avevo pensato di dare all’articolo un taglio storico…

-        Storico?! E perché? Nessuno conosce la storia.

-        Ti pare un buon motivo?

-        Ma porca puttana,  la rivista dobbiamo venderla, non archiviarla in biblioteca!  E spicciati.

-        Ok. Dammi ancora un giorno.

-        Domani devi consegnare. Non mi fare pentire di averti…

-        No, anzi, ti ringrazio dell’opportunità, ma fidati. Vedrai che…

-        Appunto, voglio vedere, non leggere! Vedere! Ciao.

-        Ok. Ciao.

Termina videochiamata. E scollega skype. E’ meglio.

Il giovane si morde il labbro e molleggia velocemente la gamba destra: è il suo modo di essere concentrato e di scaricare la tensione. La rivista fotografica, la numero uno, senza dubbio – sono amici da anni, da quando quindicenne aveva vinto il premio fotografo messo in palio dalla prestigiosa rivista – gli ha chiesto un articolo, una relazione sulla macchina fotografica e lui  vorrebbe farla così come ha detto, con un taglio storico; pensa, anzi è convinto, che l’occhio del fotografo debba posarsi non  già sul corpo di donne – non ha niente in contrario al corpo delle donne, possibilmente belle, ma crede che quello possa e debba goderselo senza filtri e, tra i vari sensi da usare, la sua modesta esperienza nel settore gli fa decisamente preferire il tatto; il giovane ha una sua idea precisa sul lavoro del fotografo:  pensa che l’occhio del fotografo debba far vedere il confine tra il qui e l’altrove, anzi, la cesura tra il qui e l’altrove: l’attimo fuggente.

Crede che questo confine, questa cesura,  si manifesti con la morte violenta e che la guerra ne sia l’artefice più rappresentativa.

- La guerra è lo specifico del reporter - lo crede con tutta la convinzione dei suoi vent’anni.

Prosegue il suo lavoro, dov’era rimasto? Prima guerra mondiale.

Un corso travolgente e accelerato di modernità – moderni lo sono stati tutti, almeno per un po’, pensa il giovane; nei primi decenni del novecento l’elettricità trasforma le notti in giorno, gli esplosivi modificano il paesaggio e poi bengala, riflettori, grammofoni, fotografia. E insieme alla fotografia arriva il cinematografo!

Ecco la morte in azione, fissata in immagini, in fotogrammi. Ecco i corpi, non quelli che vuole il caporedattore: corpi mutilati, ma le mutilazioni sono rimpiazzate da pezzi artificiali, protesi, mandibole di ferro, nasi di caucciù.  

Il giovane vede decine di immagini di monumenti funebri, non ci sono mai stati così tanti monumenti funebri come dopo la prima guerra mondiale; ogni città, ogni paese ha il suo; diventano elemento di arredo urbano. Cimiteri di guerra, ossari collettivi: la più impressionante celebrazione collettiva della morte mai vista.

E nasce la figura del tutto inedita del “milite ignoto”, tanto più glorioso perché irriconoscibile.

Non ha foto sulla tomba, nota il giovane,  negli ossari non ci sono foto.

 

Negli anni successivi le immagini parlano dal grande schermo; il giovane ha scaricato da Emule il  film “J’accuse” del regista francese Abel Gance, del 1938.

L’attore guarda in macchina,  avanza verso lo schermo,  guarda in faccia l’obiettivo:

– J’accuse! Io accuso! Io accuso la guerra  e i guerrafondai! Alzatevi, morti di Verdun, il vostro sacrificio è stato inutile!

Nel film “J’accuse” un veterano impazzito richiama i suoi commilitoni morti - i primi zombie della storia del cinema, pensa il giovane - per impedire una nuova guerra. Un esercito di zombie travolge gli impauriti combattenti futuri e le vittime della guerra che sta per arrivare.  Viene mostrata la  guerra respinta dal suo stesso prodotto, la guerra respinta da un mare di cadaveri: - Riempitevi gli occhi di questo orrore! – continua a dire l’attore - E’ la sola cosa che può fermarvi!

- Anche lui come Mathew Brady. – si dice il giovane.

 

1936. La macchina fotografica è perfezionata, è leggera; permette a tutti di scattare foto-ricordo, e farne meravigliosi album fotografici.

1936, Etiopia. Il giovane salva nel file una foto, anche questa apparirà nel suo articolo:   un uomo regge la testa mozzata di un capo ribelle etiope, la solleva dalla scatola di latta di biscotti Lazzaroni. La testa  viene portata in giro nei villaggi, dentro la sua bella scatola. E’ un insegnamento, un monito, perché  i selvaggi sono riottosi,  si rifiutano  di accettare la “civilizzatrice” occupazione italiana: e allora Benito Mussolini l’8 luglio 1936 autorizza a “condurre sistematicamente la politica del terrore” . Gli etiopi devono  imparare ad avere paura.

Al giovane pare di assistere alla scena: vede l’uomo della foto con la testa mozzata in mano e il sorriso compiaciuto che ripone la testa nella scatola di latta dei biscotti Lazzaroni, schiaccia l’occhio al pubblico con aria furba,  chiude la scatola, tira su una tracolla– nella foto non si vede, non c’è, ma il giovane la immagina perfettamente; l’uomo si appende la scatola al collo, ora ha le mani libere, può battere sulla scatola come fosse un tamburo, il suono è cupo, la cassa armonica, diciamo così, è piena, ma all’uomo non importa,  fa un passo avanti,  si rivolge agli astanti e con tono da imbonitore dice:

Venghino signori, venghino a constatare di persona! Venghino a vedere il terribile mostro!

Questo spaventoso mostro, che ora vi mostro,

non può più essere pericoloso

Non può più essere spietato

Perché signori è… decollato!

E voilà, apre la scatola ed estrae la testa. Click. That’s entertainment!

 

Il giovane trova altro materiale: è incredibile – pensa-  c’è così tanto materiale, basterebbe guardare, riflettere,  forse ci si accorgerebbe di quale orrore sia la guerra. – Anche lui ingenuo come Brady e gli zombie di  Abel Gance o forse, come loro,  terribilmente fiducioso?

Altri album di foto, giapponesi questa volta. - Loro fotografano tutto, ce l’hanno nel dna – pensa il giovane. 

Nanchino, Cina, 1937: il più grande stupro della storia. Ci sono foto di donne cinesi col ventre squarciato da mandare in regalo agli amici. - Ma anche sulla rivista Life – ricorda il giovane - c’è la foto della fidanzata americana sorridente che sulla scrivania sfoggia un bel teschio di nemico giapponese. – e continua - Ciò che traspare da queste foto è la sicurezza di essere nel giusto, di fare cose innocenti quando si mostra la testa di un capo ribelle nella scatola di biscotti, una donna col ventre aperto, il cranio del nemico.

 

E’ in Spagna, nella guerra civile, che i fotoreporter  si gettano nella mischia: non hanno più l’ingombrante e pesante macchina a soffietto, ma l’agile Leica, pellicola da 35 mm , 36 scatti prima di doverla ricaricare. Che macchina la Leica !-  pensa il giovane, e accarezza con uno sguardo la sua, sulla scrivania, nuovissima, digitale, insuperabile.

Nella guerra civile spagnola ci sono fotografi come Gerda Taro. Il giovane guarda la sua  foto: bella, determinata. Lei non è solo un corpo di donna, lei è una donna. Gli pare di sentirla:

- Generale, domani rientro a Parigi, ho bisogno di  foto dal fronte.

Il generale è furibondo. Non solo a  Madrid regna la confusione, non solo la situazione è critica, anche una fotografa donna, questa Gerda Taro,  a rompere i santissimi!

- Signorina, sparisca, tra poco qui scoppia l’inferno!

-   Appunto! – dice Gerda – devo documentarlo.

-  L’ordine è di tornare indietro immediatamente, io non posso assumermi alcuna responsabilità.

Il giovane immagina di essere lì, vede  Gerda che  ignora l’ordine e si butta nella mischia, si ripara in un buco scavato per terra, tiene in alto la macchina fotografica,  finisce tutte le pellicole che ha.

Tornerà a Parigi,  in una bara. E’ rimasta schiacciata da un carro armato. Il giorno dopo avrebbe compiuto 27 anni.

Gerda Taro è la prima reporter donna a morire in un’azione di guerra mentre svolge il proprio lavoro.

Il suo fidanzato è distrutto, è un fotografo anche lui; assieme a Gerda, si era inventato un nome americano, per vendere meglio le loro foto: il suo nuovo nome è Robert Capa.

Sarà  il più famoso fotoreporter di tutti i tempi.

 

- Capa lo conoscono tutti - pensa il giovane -  Ma questo no -  e digita: Atelier Klinger, Grabenstrasse, Braunau.  

“Braunau è una cittadina piccola, ma dignitosa, ditte solide, vicini dabbene, profumo di torta e di sapone da bucato”.  – il giovane trascrive la citazione e guarda la foto di un bambino. Gli viene in mente la voce di sua madre che quando guarda le foto dei figli piccoli delle amiche  dice: - E chi è questo bel pupo?  - il giovane ha un sussulto, nella sua testa una voce risponde:

-        Cosa freka a lei?!

      Oddio, chi parla? 

       Sono Joseph Klinger, il fotokrafo. Kvesta foto l’ho scattata io, lei non kradisce forse?

       Ma questo bambino…

       Ciucciotten, pannolinen, pavaglinen, zonaglinen: il pampino, lodando Iddio e toccando ferro, è sanen, somiglia ai genitori,  al gattino nel cesto, ai pampini di tutti gli album di famiglien.

       Ma lo sa lei chi è questo bambino, cosa ha fatto questo qui? E’ un mostro!

       Ya, un poco mostren! Pampino ha ein annen, piccolo mostro come tutti pampini sua età.

       Questo  è un malvagio!

       Ya, un poco malvagien! Avere fatten pipì zu mio kuscinen, rikordo, ma genitori, pakato lavanderia.

       Questo  è un criminale!

       Ya, io zo. Lui tirare zonaglinen su mio preziosen obiettiven Carl Zeiss di Yena, ma mankato. Pampino vivace. Io dare piccolo scappellotto su manina di pampino, così pampino imparato!

      Imparato?! Questo ha fatto campi di concentramento, scatenato una guerra mondiale, portato il mondo sull’abisso!

       Cosa frekare a me, io non fare pettegolezzen su miei clienten! I genitori hanno pakato zubito fotografien, perzone perbene herr e frau Hitler.

La prima foto di Adolf Hitler, Atelier Klinger, Grabenstrasse, Braunau.  Non si sentono cani ululare né i passi del destino.   

E’  notte ormai, il giovane deve finire l’articolo; è tardi, salva quel che ha fatto su un cd, domattina taglierà l’eccesso. Però non ha ancora finito,  c’è qualcosa che deve trovare, un  tassello, una scheggia di storia, una fotografia che gli si è incastrata nell’anima.

Internet, digita, trova: Kevin Carter, fotografo sudafricano, morto suicida tre mesi dopo aver vinto il premio Pulitzer nel maggio 1994 per una foto. – Per questa foto:  – il giovane la salva nel file - l’incontro con il male assoluto.

La foto ritrae una bambina sudanese, un mucchietto d’ossa, rannicchiata a terra, ingobbita, nuda in mezzo alla spazzatura, che sta morendo;  a pochi metri da lei un avvoltoio appostato, immobile, controlla ogni suo movimento in attesa di ghermirla.

Il giovane guarda la foto, pensa a Carter, lo vede  davanti alla bambina e all’avvoltoio. Immagina il  caldo, le mosche, la puzza.  Immagina Carter che suda, nella sua camicia di jeans, sotto il cappello di paglia. C’è un albero, Carter si appoggia al tronco, c’è un po’ d’ombra e gli è più facile stare immobile così appoggiato ad aspettare. Carter aspetta. Cosa? Che l’avvoltoio apra le ali. Pensa che  foto! Un essere umano – la bambina -  che muore diventando un pasto per un altro animale: lì c’è la vera natura del senso della vita. - Possibile che Carter abbia  pensato questo? - si chiede il giovane. Eppure Carter ha dichiarato di aver atteso venti minuti che l’avvoltoio aprisse le ali. - Magari in quei venti minuti – continua il giovane - Carter ha guardato in fondo all’anima nera del fotografo: forse si è detto che il fotografo è un turista che può infilarsi in qualsiasi realtà ben sapendo di poterne uscire quando vuole; che il fotografo è  un entomologo che guarda gli esseri umani con distacco, con l’arido alibi della professionalità. Carter appoggiato all’albero –continua a immaginare il giovane -  sa che il fotografo è sul confine rassicurante che si può sempre attraversare tra “l’io” che osserva e “loro” che soffrono, una condizione di privilegio esistenziale,  che dà i brividi. Ma  è la stessa condizione – aggiunge il giovane - di chi legge le notizie, di chi guarda le foto, di chi usufruisce dell’informazione. I brividi che dà quella condizione di privilegio, l’orrore, forse, hanno portato Carter al massimo dell’abiezione, ad aspettare che l’avvoltoio aprisse le ali. Non le regole di marketing, le convenienze editoriali, no: forse Carter  ha voluto crearsi il rimorso più grande che un uomo potesse reggere.

Il giovane sente la voce di Carter nelle interviste che gli hanno fatto nelle poche settimane prima del suicidio, lo sente mentre dice di odiare quella foto, lo sente mentre ammette di essere rimasto venti minuti in attesa che l’avvoltoio aprisse le ali.

Non le aprì, lui scattò ugualmente.

-        Addirittura aspettare che aprisse le ali!

-        Che fine ha fatto la bambina?

-        L’ha soccorsa?

-        Perché non l’ha aiutata invece di scattare?

Kevin Carter non ha mai risposto, o ha risposto in modo evasivo; disse: - Il fotografo non è il braccio di Dio, è il suo occhio.

Dopo lo scatto, rimase seduto sotto un albero a piangere, a pensare a sua figlia, a parlare con Dio.  – Chissà cosa gli disse, Dio – pensa il giovane. Qualunque cosa gli abbia detto, l’anno dopo Carter si suicidò.

-        E  Nick Ut?  – si chiede il giovane. – Dio parlò anche a lui? -  

Nick Ut vinse il  Pulitzer nel 1972 per la foto della piccola vietnamita nuda che fugge da un bombardamento al napalm del suo villaggio; quella foto divenne la foto simbolo della guerra del Vietnam.

Il giovane vuole chiudere l’articolo con la foto di Carter: quella, per lui,  è una foto di guerra, la guerra che c’è sempre,  contro i deboli, i poveri, gli ultimi. 

Ma la realtà esige che si fotografi anche questo: un distributore di benzina nella piazzetta di Gerico, Hiroshima che è ancora dov’era Hiroshima e dove si producono molte cose di uso quotidiano. Insomma, la vita continua; continua a Canne, a Borodino, a Guernica. 

-        La fotografia testimonia – così pensa il giovane – Anche l’attimo fuggente ha un ricco passato.  

Il giovane non riesce a concludere la frase, l’esplosione è forte - è la terza questa settimana,  la città è una polveriera, il Medio Oriente è una polveriera! – i pensieri schizzano veloci, dagli occhi, dalle orecchie,  il monitor si spegne, tutte le luci si spengono. Un bagliore,  dai vetri della finestra che tremano,  illumina la cupola della moschea.

Il giovane è già scattato in piedi, deve uscire, deve andare là fuori:  la mano sicura afferra la Leica , è sempre pronta, come è sempre pronto lui, come è sempre pronta la vita  davanti all’attimo fuggente.