Maria Grazia Distefano
Maria Grazia Distefano

Aliti di vento

 

        racconti

Le gambe di Antonietta cominciavano ad avvertire un leggero affaticamento. Quella mattina la terapia riabilitativa prevedeva, oltre i soliti esercizi, anche l’utilizzo di una cyclette. La rottura di un femore a quasi ottant’anni è una vera rogna, soprattutto se si è avuto due infarti venti anni prima, un’operazione alla tiroide, e si è usciti vivi dall’asportazione di un tumore che si è portato dietro mezzo stomaco.

Antonietta, però sembrava aver superato anche l’ultima operazione, quella in cui le hanno rimesso a posto un femore spezzatosi come la cialda croccante di un cono gelato, dopo una banale caduta a causa di un capogiro dovuto a un’ipoglicemia occasionale.

 Adesso Antonietta trasudava immortalità nella sua tuta rosa, intenta a portare a termine i quindici minuti di pedalata prevista dal fisioterapista Michele, un giovane robusto che aveva tutta l’aria di non voler mai essere contraddetto, in particolar modo nel suo lavoro.

D'altronde le nonnine e i nonnini ospiti della casa di cura Maria Stella, cercavano sempre di ottenere degli sconticini con frasi e gesti che invogliavano alla compassione, ma lui sapeva ben distinguere le scuse per pigrizia dalle reali esigenze della vecchiaia.

Quella mattina, Antonietta sulla cyclette cominciava a sudare. La maglietta bianca della Nike, che la nipote Giada le aveva portato da Roma, cominciava ad appiccicarsi sulla schiena, ma i piedi dentro le sue scarpe da ginnastica comprate per l’occasione, affondavano decisi sui pedali.

– E… quindici! – esclamò Antonietta tutta soddisfatta, mentre levava via dalla fronte le gocce di sudore evaporate.

– Bella signora, per oggi ha finito. Può tornare in camera sua, Annalisa la riaccompagnerà – disse Michele, contento dei progressi che quella vecchietta faceva di giorno in giorno.

Antonietta scese dalla cyclette con estrema lentezza, le gambe le tremavano e stavolta un leggero affanno le gravava sul cuore. Ciò non la turbò più di tanto e aiutata da Annalisa fece ritorno in camera sua, dove trovò Olga, la sua vicina di letto, intenta a ricontare i punti di un centrino all’uncinetto, fatto e disfatto svariate volte.

– Oggi mi hanno fatto pedalare – disse Antonietta rivolgendosi alla sua compagna di camera.

– Cosa? Ti hanno fatto ballare? – chiese Olga, dando lievi colpetti all’apparecchio acustico posto dietro l’orecchio sinistro.

– Non ballare, pe-da-la-re – Antonietta scandì bene le sillabe del verbo muovendo le braccia in modo circolare indicando l’azione della pedalata.

– Ah, pedalare! Con la bicicletta?

– No, con la cyclette.

– Cosa?

– Cyclette. Cy-clet-te… - scandì ancora una volta Antonietta cominciando a perdere la pazienza.

– Civette? – chiese Olga sicura di aver capito una cosa per un’altra.

– Lascia stare, te lo dico dopo. Vado a cambiarmi – tagliò corto Antonietta, dirigendosi verso il bagno situato di fronte il letto di Olga aiutandosi con il tre piedi.

– Ah, bello. Deve essere stato divertente! – aggiunse Olga, mentre un ultimo colpetto all’apparecchio acustico gli fece emettere un lungo fischio.

Anche Olga si era operata al femore, spezzatosi dopo uno scivolone lungo il corridoio, dove Enzo III, un cane trovatello color grigio topo, con il pelo sempre arruffato, aveva lasciato l’ennesima pipì.

Da quando Olga era rimasta vedova, aveva avuto tre cani, un pappagallo e due pesciolini rossi. Non le interessava conoscerne il sesso, perché tanto avrebbero portato tutti immancabilmente il nome del marito defunto.

Mancanza di fantasia? No. Semplice elogio di un marito fedele come un cane, inceppato come un pappagallo e che Olga avrebbe tanto voluto fosse muto come un pesce.

Antonietta uscì dal bagno rinfrescata e profumata, pronta per ricevere le visite mattutine. Di solito andavano a trovarla suo figlio maggiore Orazio e la moglie Maria, meno spesso l’altro suo figlio, Franco, quasi mai la nuora Elsa.

Orazio e Franco, entrambi laureati in giurisprudenza, avevano seguito le orme del padre, avvocato di successo. Tra i due, però appena iniziata l’attività lavorativa, venne a mancare la spensierata complicità degli anni giovanili.

Orazio, più grande di Franco di due anni, sembrava essere il figlio prediletto del padre, che nel suo studio lo aveva da subito inserito senza alcuna riserva. Franco, invece, sembrava stare sempre un passo più indietro rispetto al fratello e faticava parecchio per farsi spazio e dimostrare al padre il suo valore.

Presto tra i due si è scatenata un’avariata rivalità che li ha spinti, dopo la morte del genitore, a separare le loro strade.

Antonietta soffriva per quest’astio tra i due fratelli, ma per quanto l’amore materno l’avesse più volte spinta a perdonargli ogni cosa, certe volte doveva ammettere, nella propria intima solitudine, che molte scelte fatte da Franco non le garbavano per niente. Tra tutte, quella che più non riusciva a digerire era la scelta della compagna della sua vita: Elsa, acronimo di Egoista, Lecchina, Senza cuore, Apatica, secondo il dizionario di una madre che cresce un figlio ventinove anni per poi vederlo cadere in un baratro senza via d’uscita.

Antonietta si è sforzata di farsi piacere quella ragazzina arrivista, che trattava suo figlio con finto fare lezioso, nascondendo segrete, appuntite unghie velenose.

Ha cercato di mascherare i dubbi che la attanagliavano, ma nel corso degli anni è diventato sempre più difficile, qualcosa sarà trapelato, perché se prima Elsa stringeva con lei solo rapporti convenevoli durante i quali le due donne scambiavano finti baci augurali, falsi entusiasmi per piacevoli notizie, artefatti atteggiamenti affettuosi, negli ultimi anni i loro rapporti si erano ristretti come un maglione infeltrito, riducendosi in qualche breve telefonata e sporadiche visite solo in casi di malattia seria.

In effetti, Elsa tutte le volte che Antonietta era stata ricoverata in ospedale c’era sempre andata, ma Antonietta credeva che in realtà Elsa andasse a trovarla solo per accertarsi che quella volta non se la sarebbe cavata, tant’è vero che quando Antonietta cominciava a riprendersi, le sue visite si riducevano e Franco annaspava nella confusa ricerca di scuse sempre più ridicole e assurde per giustificare l’assenza della moglie. Antonietta, però di pasta dura, alla fine ce l’aveva sempre fatta.

Quella mattina Olga sapeva già che non avrebbe ricevuto visite quindi lavorava serena l’uncinetto, Antonietta, invece, sfogliava distratta una rivista, aspettando con ansia l’orario delle visite dei parenti, per poter inscenare la parte della moribonda disperata pronta a schiattare da un momento all’altro.

Dei passi svelti lungo il corridoio, la avvisarono che già le infermiere avevano aperto la grande porta di vetro trasparente che dava l’accesso alle camere dei pazienti. Posò in fretta la rivista sul comodino, affondò il corpo sotto il copriletto e socchiuse gli occhi. Dalla bocca spalancata fuoriusciva un finto lamento.

Rimase in questa posizione per qualche minuto, poi qualcuno entrò in camera.

– Sta dormendo – disse sottovoce Maria.

– Ahi…cheeeeee…maaaaaaleeeee… - mugolò Antonietta.

– Mamma, come ti senti? – chiese preoccupato Orazio.

– Beeeeneee…nooooon tiii preooooccupareee, ahi, ahi – continuò Antonietta mentre cercava di tirarsi su con la schiena.

– Aspetta, ti aiuto io – disse svelto Orazio.

Era proprio questo che voleva Antonietta, ricevere un po’ di attenzioni, sentire sul suo corpo le mani forti di quel figlio che tante volte aveva stretto al petto e ora, sembrava incredibile, era lui ad abbracciarla, a rassicurarla.

Antonietta, però pur recitando benissimo la parte della moribonda, non riusciva a sostenerla per lungo tempo e quasi subito si riprendeva miracolosamente da ogni malanno, ma per sostenere la sua parte da moribonda doveva comunque ogni tanto fingere qualche fitta accompagnata da una smorfia o interrompere ansimante il discorso come se avesse bisogno di riprendere fiato.

– Guarda mamma - disse la nuora mostrandole la copertina colorata di un album di foto – ti ho portato le foto di Paoletto, guarda com’è cresciuto.

Orazio e Maria avevano due figli Ludovico e Giada. Ludovico aveva ventitré anni, una compagna e un bimbo di dieci mesi. Giada di anni ne aveva venti ed era una studentessa universitaria. Dopo gli studi liceali si era iscritta in Giurisprudenza sotto lo stimolo del padre, che vedendo sfumare la carriera di avvocatura del figlio maschio costretto a mantenere una famiglia arrivata all’improvviso, aveva riposto ogni aspettativa su Giada.

Antonietta prese in mano l’album e cominciò a sfogliarlo. Un tenero sorriso colorò il suo volto tanto da marcare ulteriormente le rughe attorno alle labbra che nel corso degli anni le hanno trivellato la pelle procurandole dei veri e propri solchi.

Per Antonietta tutte le foto, belle o brutte, sfocate o luminose, con inquadrature da principianti o da professionisti, avevano un valore inestimabile. Qualcuno con un semplice “clic” aveva reso eterni attimi fugaci, momenti effimeri e transitori.

Ogni foto era degna di rispetto nella sua carica emotiva. La sua vista, infatti, aveva il magico potere di suscitare ilarità o tristezza, sciogliere gli animi in commozione, aprire i condotti lacrimali e lavare il dolce ricordo del momento reso eterno.

Una foto riusciva a fermare il vento, gli spruzzi di un’onda infranta su una spigolosa roccia, lo spiegarsi delle ali di un uccello in volo, il primo vagito di un bimbo appena nato, il sigillo di un amore vestito di bianco dinanzi una chiesa.

Una foto segna per sempre ciò che oggi siamo per ricordarci domani com’eravamo.

Così Antonietta guardava il piccolo Paoletto seduto sulla sabbia, circondato da palette e secchielli di varie forme e dimensioni. La luce quel giorno era ottima, infatti, la luminosità di quelle foto le rendeva reali al punto da sentire l’odore frizzante del mare e percepire il caldo bollente della spiaggia.

Persa nello scrutare ogni singolo particolare di quell’album estivo, Antonietta sentì all’improvviso una piacevole voce salutarla:

– Nonna, ciao! – Esclamò Giada.

– Giada? Non sapevo fossi qui – disse Antonietta sorpresa per quella visita inaspettata.

– Sono arrivata questa mattina e sono corsa da te. Roma per qualche giorno può fare a meno di me – disse tutto d’un fiato Giada sorridente.

– Gli studi possono fare a meno di te, vorresti dire – aggiunse Orazio, che era preoccupato della carriera universitaria della figlia che in quell’ultimo periodo sembrava andare un po’ a rilento.

– Lasciala un po’ in pace, lei saprà cosa fare della propria vita – la difese Antonietta.

Un rondò veneziano fece vibrare il cellulare di Orazio il quale si affrettò a rispondere e dopo trenta secondi di conversazione rapida e concisa riattaccò dicendo:

– Mamma, noi dobbiamo andare, c’è un problema con un cliente e devo correre in Tribunale.

Baciò in fretta Antonietta sulla fronte, Maria le sfiorò la guancia con la sua e insieme uscirono dalla camera.

– Allora, piccolina, cosa combini? – chiese Antonietta alla nipote tirando lentamente le gambe giù dal letto per assumere una posizione seduta.

– Niente, nonna – rispose Giada imbarazzata.

Antonietta notò il suo sguardo triste cadere all’ingiù. Giada prese in mano la rivista adagiata sul comodino e cominciò a sfogliarla con fare distratto. Voleva mostrarsi tranquilla e indifferente, ma in realtà ad Antonietta arrivò tutto il suo malessere.

Antonietta aveva imparato a conoscere quella minuta ragazza dal visino delicato e puro, fin da quando ancora bambina le faceva da baby sitter tutti i pomeriggi d’inverno. Insieme, dopo il riposino pomeridiano, bevevano una cioccolata calda, poi davanti al camino Antonietta dava libero sfogo alla sua fantasia e raccontava alla nipotina storie fantastiche in cui draghi, fate, conigli volanti e canguri nani intrecciavano tra di loro avventure varie. Giada poi con i pennarelli rappresentava le storie della nonna, dando vita a quei personaggi fittizi le cui parole aleggiavano dentro nuvolette spumose.

Giada aveva un gran dono: riusciva senza fatica alcuna a dare tridimensionalità a piatte pagine bianche. Le bastava chiudere gli occhi e immaginare, poi in un gioco di chiaroscuri tirava fuori dei veri e propri capolavori. Antonietta sembrava essere l’unica ad apprezzare quei lavori, nessun altro membro della sua famiglia, infatti, mostrava serio interesse per quella dote, tanto che quando Giada, dopo il conseguimento della licenza media, aveva espresso il desiderio di frequentare il Liceo Artistico, le era stato detto che i sogni non riempiono la pancia e per questo devono restare tali.

La madre l’aveva iscritta il giorno dopo al Liceo Classico e Giada aveva accettato senza alcuna ribellione.

Un uccellino chiuso in gabbia cinguetta serene melodie, chi lo possiede se ne delizia, ma non sa che sta ascoltando il triste canto della rassegnazione. E così Giada frequentava Giurisprudenza lei che possedeva la dialettica del cuore e non della parola, lei che non sarebbe mai riuscita a condannare nessuno con le sue idee di libertà, lei che soffocava l’innato istinto cromatico, unico codice che avrebbe potuto dare voce alle sue parole.

Giada, negli ultimi mesi, stava avvertendo una forza soffocante stringerle la gola, un cappio dal quale voleva liberarsi e l’unico modo per riuscirci era scappare dalla città che la costringeva a quegli studi forzati a lei di sicuro non adatti, ma tanto auspicati dal padre.

Solo nonna Antonietta sembrava capire il suo disagio, per questo quando poteva andava a trovarla, lei riusciva sempre a farla sorridere, spesso a sorprenderla. Fu così anche quella mattina.

Antonietta diede uno sguardo a Olga e la vide sonnecchiare con l’uncinetto in mano e il centrino abbandonato sul largo e molle ventre, pensò quindi di poter parlare liberamente con la nipote, poiché tra lo stordimento del sonno e l’apparecchio acustico scarico Olga non avrebbe mai udito nulla di ciò che Antonietta avrebbe svelato alla nipote.

– Voglio raccontarti una storia. - Cominciò così il suo racconto Antonietta.

La storia alla quale si riferiva risaliva all’estate del 1953. Erano gli anni del boom economico e delle vacanze di massa. Tutte le famiglie si recavano al mare con l’utilitaria e andavano ad affollare spiagge organizzate con tende al posto dell’ombrellone.

Antonietta aveva compiuto diciassette anni in primavera e cominciava ad avvertire su di sé i primi sguardi dei giovanotti in cerca d’amore. Le avevano detto di tenere gli occhi bassi, ma lei avrebbe tanto voluto alzarli e sottostare al gioco degli sguardi fugaci.

Aveva lasciato Milano durante una calda mattina di luglio ed era arrivata a Rimini con i suoi genitori, la zia Luigina e la sorella Rosina, giusto in tempo per il pranzo.

 La pensione che li ospitava aveva un’ampia terrazza alla quale s’imponeva la vista del mare. Una strada separava la loro pensione dall’hotel Miramare, dal quale i turisti tedeschi, senza inibizioni, scendevano direttamente in spiaggia con accappatoio e zoccoli di legno già pronti per il bagno e per le sabbiature.

Era la prima vera vacanza per Antonietta e perduto ben presto l’iniziale smarrimento e senso di inadeguatezza, pensò fosse il caso di vivere in pieno quell’esperienza che, in effetti, si è rivelata per lei davvero indimenticabile.

La sera dell’arrivo lei e la sorella passeggiavano allegre sul lungomare, mentre subito dietro di loro i genitori e la zia Luigina chiacchieravano del più e del meno.

Nonostante il caldo della mattina, l’aria quella sera era frizzante a causa d’un alito di vento che proveniva dal mare e Antonietta stringeva con entrambe le mani sul petto, uno scialle giallo che le copriva le spalle e il decolté. I capelli raccolti in una coda le ciondolavano ad ogni passo e lei fiera muoveva le gambe dentro una gonna a palloncino fermata da una larga cintura.

La decisione di fermarsi a un bar a prendere un gelato, la prese suo padre. Occuparono quindi un tavolino collocato fuori dal bar sotto una tettoia montata apposta per la stagione estiva, per proteggere i turisti dal sole della giornata e dall’umidità della sera.

Un cameriere passando tra i tavolini inavvertitamente fece cadere a terra lo scialle che Antonietta aveva poggiato sulla spalliera della sedia. Un giovanotto, però pronto lo raccolse e glielo restituì con fare gentile. Tra i due vi fu uno scambio di sorrisi, poi il ragazzo scomparve dietro la porta d’ingresso del bar.

Quella sera nel suo letto Antonietta non riusciva a prendere sonno, sarebbe voluta restare ancora sveglia, sul terrazzo, a respirare la luna riflessa sul mare, ma a quell’epoca le ragazzine non avevano potere decisionale e quando il babbo decideva qualsiasi cosa, questa doveva essere rispettata.

Antonietta, però ribelle c’era nata e la voglia di vivere oltre le regole imposte le apparteneva da quand’era bambina. Così, nel cuore della notte sgattaiolò fuori sul balcone, lo scavalcò con l’agilità di uno scoiattolo e in men che non si dica si ritrovò seduta su una sdraio umidiccia e appiccicosa, ma non le importava, poiché voleva godersi quel momento di libera solitudine.

Una voce, però presto la fece trasalire:

– Questa luna sembra splendere più del solito – disse qualcuno alle sue spalle nascosto nella penombra della notte.

– Chi è? Chi c’è lì? – chiese impaurita Antonietta alzandosi di scatto.

La voce diventò persona e Antonietta poté di riconoscerne il ragazzo che al bar le aveva recuperato lo scialle. Si fece più vicino a lei finché occupò la sdraio accanto a quella dove prima era seduta Antonietta.

– Mi piace il silenzio della notte. Respirare la salsedine mi aiuta a liberare la mente – continuò il ragazzo.

Anche Antonietta prese posto sulla sdraio di prima e rimasero così, in silenzio, a guardare la luna attorniata di stelle e il loro riflesso sul mare.

Quando Antonietta si svegliò un telo da mare non suo la ricopriva per metà e il sole cominciava a colorare di arancione l’acqua salata.

In tutta fretta abbandonò il telo, rifece la strada che l’aveva condotta sul terrazzo la notte prima in senso opposto e rientrò in camera sua. Nessuno si era accorto della sua assenza.

Per tutto il giorno, in spiaggia, al ristorante, sul lungomare Antonietta scrutò tutti i giovanotti nella speranza di riconoscere in qualcuno di loro il ragazzo del terrazzo. Sperava, infatti, di vedere  alla luce del sole il suo fisico alto e asciutto, i suoi capelli lisci e neri con un taglio alla moda, gli occhi profondi color nocciola o risentire la sua voce, sicura nell’emissione di ogni sillaba pronunciata.

Nel pomeriggio si arrese. Pensò fosse solo di passaggio e non in vacanza, o forse semplicemente aveva sognato.

Con la disillusione nel cuore, lasciò lo stabilimento balneare per recarsi a fare una passeggiata lungo il litorale con i suoi familiari. La zia e la madre si soffermavano a guardare e a commentare ogni singola vetrina di ogni singolo negozio. Lei, Rosina e il padre, poco più avanti, passeggiavano lentamente per non dare troppo distacco alle due donne dietro.

All’improvviso qualcosa di fresco cadde dall’alto e le bagnò capelli, spalle e vestito.

Una signora grassoccia si scusò dall’alto di un balcone. Innaffiando, l’acqua era fuoriuscita da uno dei vasi ed era caduta giù prendendo in pieno Antonietta.

La mamma e la zia si avvicinarono di corsa attirate dall’urlo della ragazza, poi la spinsero dentro il negozio più vicino per ripulirla e renderla di nuovo presentabile.

Una volta dentro, Antonietta, con le mani cercò di asciugare il grosso del bagnato frammisto a terra e foglioline secche che nel frattempo si erano appiccicate sui suoi capelli e sulle sue braccia nude. Poi riconobbe la voce che diceva loro:

– Posso esservi utile?

 Antonietta alzò lo sguardo verso chi aveva pronunciato quella frase e mai si era vergognata tanto in vita sua. Sembrava uscita da una pozzanghera dopo un’accidentale caduta.

Il ragazzo che aveva cercato di individuare tra i bagnanti in quella giornata, ora le forniva una asciugamani e la invitava ad andare sul retro dove c’era uno specchio appeso sull’anta di un armadietto.

Quello dove Antonietta si ripulì, era il retro di uno studio fotografico. Il misterioso ragazzo era dunque un fotografo, ecco perché non era riuscita a individuarlo tra i bagnanti.

Aiutata dalla madre e dalla zia Luigina, Antonietta recuperò un aspetto lievemente decente, tanto da potere sostenere la strada del rientro che avvenne in tutta fretta.

Anche quella notte Antonietta scavalcò il balcone e col cuore in gola lottava tra il desiderio di trovare lì quel ragazzo gentile e la vergogna di essersi fatta vedere in quelle disagiate condizioni.

Occupò di nuovo la sdraio della notte precedente e restò in attesa, di cosa neanche lei lo sapeva bene.

Lui era già lì. Rimase nascosto per un po’ scrutandola al chiaror di luna. I suoi capelli biondi sotto la luna, sembravano fili d’argento. Li teneva sciolti, sulle spalle e a lui piacevano, perché erano diversi da quelli corti e cotonati di tutte le ragazze che volevano assomigliare alla cantante più in voga in quegli anni, Nilla Pizzi.

Poi decise di venire allo scoperto e le andò vicino. Il silenzio della notte fu complice delle sue parole. Gli bastò bisbigliare una”buonasera signorina”, per suscitare la reazione di Antonietta, che udendolo gli sfoderò un sorriso delizioso e imbarazzato insieme.

– Una bella avventura, quella di oggi – disse lui.

– Sì, davvero una bella avventura – rispose Antonietta, cercando di tenere giù l’orlo della gonna che il vento faceva svolazzare.

– Io sono Walter – disse il ragazzo porgendole la mano, poi si accomodò su una sdraio.

– Piacere, Antonietta – ricambiò lei – a proposito, grazie per avermi aiutato oggi. Siete un fotografo – aggiunse col tono di chi vuole saperne di più.

– In realtà do una mano a mio zio, lo studio è suo. Io d’estate faccio un po’ di pratica – disse Walter, mentre portava entrambe le mani dietro la nuca e incrociava le caviglie tra loro.

– Non ho mai conosciuto un fotografo in tutta la mia vita – esclamò Antonietta, pentendosi quasi subito di quella ridicola confessione.

– Per me fotografare equivale a immobilizzare ciò che per sua natura è immobilizzabile. – Poi alzandosi in piedi e raggiungendo la ringhiera del terrazzo, aggiunse – nessuno può fermare l’attimo dello spumeggiare di un’onda, né tanto meno la caduta di una foglia in autunno, o l’emozione che una luna riflessa sullo specchio d’acqua può procurare in un determinato momento. – Poi giratosi, guardò negli occhi Antonietta, che lo ascoltava rapita, e aggiunse – solo il fotografo è stato investito di questo potere. Coglie l’attimo e lo rende eterno.

Antonietta, affascinata dal discorrere di quel giovane uomo, se ne stava rannicchiata sulla sdraio, con le gambe contro il petto.

Walter le confessò i suoi sogni più intimi trascinato dalla serena accondiscendenza di quella ragazza che senza conoscerlo gli dedicava tempo e ore rubate alla notte.

Le giornate trascorrevano tranquille durante quel soggiorno estivo e Antonietta spogliata dall’umido della nebbia milanese, si sentiva rigenerata sotto i caldi raggi solari. La notte, però le spruzzava addosso un friccichio nell’anima che mai più Antonietta avrebbe provato per il resto della sua vita.

Una sera, in particolar modo, Antonietta conobbe i moti del cuore.

Walter le diceva che presto avrebbe lasciato l’Italia, sarebbe andato in America. Si raccontavano meraviglie sulle possibilità di vita negli Stati Uniti e lui era sicuro che lì sarebbe riuscito a coronare il suo sogno: dare senso e valore ai suoi scatti fotografici, magari inserirli in una raccolta. Mentre le diceva queste cose le teneva le mani.

Qualche giorno prima, con la complicità di Rosina, Antonietta era riuscita a vedere da sola Walter, il quale aveva portato con sé la sua Zenith Bencini Comet II e le aveva fatto alcune foto, immortalando la sua corsa contro il vento.

In quell’occasione tra i due non c’era stato alcun contatto fisico, adesso per la prima volta lui le teneva le mani ed era incredibile l’effetto procurato al cuore di Antonietta.

Quel contatto le trasmetteva infinte scariche elettriche che rischiavano di procurarle un piacevole infarto. Poi Walter la prese per i fianchi e la attirò a sé.

Un bacio, tenero e passionale insieme, li tenne incollati per un periodo indefinibile che ad Antonietta sembrò darle il tempo di fare il giro del mondo e visitare quei posti sconosciuti che sapeva già non avrebbe mai visto.

Antonietta si spogliò di ogni remora, di ogni etichetta impostale da un vivere in società che da sempre le stava stretto e sentiva che avrebbe fatto tutto quello che lui le avrebbe chiesto di fare.

– Vieni con me – le sussurrò Walter dandole per la prima volta del tu.

Antonietta rimase con le parole sospese in aria. Davvero avrebbe fatto tutto quello che lui le avrebbe chiesto?

– Sarai il mio alito di vento ispiratore. – Continuò Walter divertito – Anzi, intitolerò proprio così la mia raccolta “Aliti di vento” – disse disegnando con le mani un semicerchio che rimase a galleggiare in quella’aria della notte che cominciava a farsi pungente.

Antonietta non riuscì a rispondere, non riuscì nemmeno a dire che l’indomani mattina sarebbe rientrata a Milano e che la paura della sua proposta la terrorizzava a tal punto da inchiodarla in un silenzio assordante. I suoi non glielo avrebbero mai permesso. Che cosa avrebbe detto la gente. Sua madre ne sarebbe morta.

Negli anni successivi Antonietta ripensò spesso a quelle notti libere e magiche, durante le quali aveva creduto di essere forte e libera dalle convenzioni sociali alle quali nel suo piccolo voleva ribellarsi, ma di fatto ne era stata assorbita come tante altre donne negli anni cinquanta.

 Aveva sposato l’uomo che i suoi genitori avevano scelto per lei, un uomo che le aveva garantito una vita piena di agi, che le aveva dato tanto affetto ma non l’amore e la passione e quel pizzico di avventura che l’avrebbe salvata dalla banale quotidianità.

A diciassette anni Antonietta non aveva avuto il coraggio di affrontare quella vita che più di ogni altra sarebbe stata adatta a lei.

Giada ascoltò il racconto della nonna in silenzio e con attenzione. Non sapeva se crederle davvero, infondo la nonna le raccontava storielle da quand’era bambina. In più di un’occasione le aveva fatto credere che molti fatti ed eventi che riguardavano la vita degli altri o la propria, erano veri. A lei piaceva scherzare e a volte prendersi gioco degli altri, come le sue finte recite da moribonda.

Giada quindi, durante il racconto, aveva annuito spesso con convinzione lasciandole credere che stesse seguendo con interesse la sua storiella.

Nel frattempo Olga si era destata dalla pennichella e aveva ripreso a lavorare all’uncinetto. Un’infermiera affacciò la testa dentro la stanza e in direzione di Giada urlò:

– L’ora delle visite è finita!

Giada si alzò, recuperò la borsa che prima aveva lasciato ai piedi del letto, diede un bacio alla nonna e la strinse forte.

– Grazie, nonna. Sai sempre emozionarmi con i tuoi racconti.

– E’ la vita, tesoro mio. Non lasciare che niente e nessuno la gestisca se tu non vuoi.

Giada lasciò la stanza e Antonietta si sdraiò sul letto, felice di aver ricordato una fetta della propria vita, forse la più squisita. Quell’amore rapido e intenso, delicato e travolgente, lei non aveva avuto il coraggio di viverlo, lo stesso però l’aveva accompagnata nel corso degli anni, grazie al ricordo delle  forti emozioni provate.

Quella stessa notte Antonietta con gli occhi socchiusi avvertì di nuovo quell’alito di vento che tanti anni primi aveva accarezzato il suo volto contro quello di Walter: quell’alito di vento  era venuto a prenderla per portarla via e ridarle la possibilità di vivere quella vita mancata, stavolta per sempre.

 

La porta d’ingresso era spalancata, Giada entrò in punta di piedi, come se la nonna fosse ancora lì sulla sua poltrona a fare un riposino. Sentì la voce della zia Elsa provenire dalla stanza da letto.

– Tua madre e la mania di conservare tutto… - disse rivolgendosi allo zio Franco mentre lasciava cadere sulla poltrona un mucchio di scialli e foulard.

Giada sbirciò dentro la camera con gli occhi ancora rossi per il pianto. Tra quegli scialli uno di colore giallo spiccava per la lucentezza della stoffa, ancora intatta nonostante gli anni trascorsi.

Giada provò un moto di ribellione nel vedere come ignobili mani si avventavano su quello che era appartenuto alla nonna, sui suoi ricordi, su ciò che lei era stata.

Quale diritto avevano loro di frugare tra le sue cose. Un atto di sciacallaggio si stava compiendo sotto i suoi occhi.

In cucina, suo padre raccoglieva in un sacchetto di carta tutte le medicine, frugando in ogni sportello e in ogni cassetto. Sua madre in salotto si muoveva a scatti, dava l’impressione di non sapere dove mettere le mani. Se fossero entrati dei ladri, sarebbero stati più organizzati.

Giada sbirciò dentro ogni singola camera, compresa quella in cui la nonna rimasta vedova aveva trasferito tutte le sue cose. Lì ancora nessuno aveva pensato di curiosare o cercare chissà che cosa.

Giada entrò e rimase immobile, in piedi dinanzi al comò.

Si guardò allo specchio: notò come alcuni tratti del suo viso ricordavano quelli della nonna. Asciugò una lacrima che nel frattempo le era scivolata giù, poi cominciò a fare quello che gli altri stavano facendo di là, ma solo con più rispetto.

Aprì un cassetto del comò e infilò le mani dentro con l’intenzione di riavere un contatto con la nonna Antonietta.

Con gli occhi chiusi affondò le mani nella sua biancheria avvertendone la morbidezza, poi penetrando più a fondo qualcosa di duro e di freddo s’impose al suo tatto.

Aprì gli occhi e tirò fuori una scatola di legno piatta e larga. Forzò appena facendo una pressione sui lati e questa si aprì mostrandone il contenuto.

Su una copertina marrone spiccava un’incisione: Wind breathes (Aliti di vento) raccolta fotografica di Walter Rossi New York 1965.

Giada lesse la dedica scritta a penna sulla prima pagina: Ad Antonietta, l’unico alito di vento che ho catturato, ma non sono riuscito a fare mio.

Lo stupore e la curiosità presero il sopravvento e Giada cominciò a sfogliare le pagine di quel libro: delle foto in bianco e nero mostravano le mani di un bimbo strette a cucchiaio mentre davano libertà a un uccellino, gli spruzzi di schiuma salata che galleggiavano nell’aria mentre un’onda si ritraeva, le foglie aride e accartocciate sospese nella scia  di un vento autunnale.

Giada divorò quelle pagine lasciandosi trasportare da un dolce consenso. Poi arrivò lei: sua nonna immobile in una libera corsa sulla spiaggia. Le sue giovani gambe s’intravedevano nude sotto la gonna sollevata dal vento, i suoi capelli sciolti seguivano la direzione della brezza e una mano teneva un foulard rigonfio come una vela.

Mai sua nonna le era parsa più bella. Il suo sorriso ragazzino sprizzava un’immensa gioia.

Le sarebbe tanto piaciuto sapere come sua nonna fosse entrata in possesso di quella pubblicazione, se suo nonno sapeva dell’esistenza di quella foto, oppure no, infondo, però saperlo avrebbe solo soddisfatto una sua curiosità, quello che invece contava per lei in quel momento, era ciò che la nonna aveva voluto comunicarle il giorno in cui le aveva raccontato la sua estate del 1953.

Giada ripose la raccolta fotografica di Walter dentro la scatola di legno, la chiuse e la prese in mano. Uscì dalla camera senza che nessuno si accorgesse della sua presenza. Mentre lasciava la casa della nonna, sentì la zia Elsa balbettare con la sua voce stridula:

- Quella vecchiaccia, come ha potuto…come ha potuto dare tutto in beneficenza! – disse mentre si lasciava cadere su una poltrona reggendo in mano le ultime volontà di Antonietta.

Giada sorrise al pensiero che la nonna di sicuro si stava divertendo quanto lei da lassù vedendo quella scena.

Mentre Giada scendeva le scale, sentì il peso, che da mesi la opprimeva, cominciare ad allentarsi.  Quando Giada fu in strada sapeva già cosa fare: non avrebbe permesso più a nessuno di gestire la sua vita, di imporle scelte e farla vivere nel rimpianto. Avrebbe seguito il suo cuore, e un mondo a fumetti di mille colori e chiaroscuri le stava già venendo incontro.