Maria Rosa Amich

D’amore e di fotografia  

Maria Rosa Amich  

 
 

        racconti

 Aveva cominciato a fotografare perchè non aveva una lira in tasca e doveva inventarsi un mestiere. Pan era un tipo piccolo, dalla barba biondo-rossa e con un’altrettanto rossa “voglia” tra la base del collo e la clavicola. Bilioso, sempre incazzato con il mondo, ad un certo punto aveva detto arrivederci al partito, da cui percepiva uno stipendio da funzionario, per questioni di principio, di etica e di chissà quali altre dimenticate ragioni.

Se ne era andato sei mesi a Parigi, tanto per voltare pagina e rigenerare la mente e i pensieri. Ma certo era stato tanto tempo prima, tanto tempo prima di conoscere lei, Croselin.

In realtà si fotografa sempre la stessa immagine – le disse dandole da leggere “La camera chiara” di Roland Barthes , “ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta; essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente”.

Non fu certa di aver capito, ma lui le incorniciò una fotografia scattata durante una gita in montagna con amici, uno scorcio di roccia grigio e cupo da cui spuntavano, da una spaccatura, piccoli fiori lilla. Non era una fotografia che le piacesse particolarmente, ma il gesto sì, le procurò piacere come se il fotografo, che questo era il mestiere di Pan, le avesse detto – Bella fotografia!- Cosa che si astenne dal fare, quel giorno e per gli anni a venire.

Presero a vedersi con assiduità definendosi fidanzati come due giovani adolescenti al primo amore anche se di età erano entrambi prossimi ai quaranta. A Pan piaceva questa definizione un po’ desueta, perchè oltre che bilioso, era un po’ eccentrico, un tipo strano, estate e inverno vestito di jans e camicia, la barba un po’ incolta e gli occhiali tondi da intellettuale. Nella foga dell’amore la trascinò nel piccolo bagno attrezzato da laboratorio di sviluppo per immagini in bianco e nero della sua altrettanto piccola casa di scapolo. Il bianco e nero era come un culto, una religione di cui talvolta tentava di spiegarle i riti mostrandole le immagini di  fotografi che hanno fatto la storia della fotografia, gliene indicava i particolari sfogliando i volumi di Cartier Bresson, lo sguardo del secolo, lo scatto che coglie la realtà o le immagini di Doisneau, le persone qualunque nelle strade, i vicoli e i bambini di una Parigi di un tempo passato. 

Se ne andarono come per un tacito viaggio di nozze, parola tra loro assolutamente vietata, a pochi chilometri dalla città, a pernottare a  Roccaverano, girovagando per le Langhe. Un pomeriggio nel loro girovagare, incontrarono una “folla” di gatti, quindici, venti, sulla porta di una vecchia trattoria.  Se ne stavano tranquillamente distesi al sole sulla strada poco trafficata ad oziare o intenti a slappare da grosse scodelle gli avanzi che qualcuno aveva sistemato per loro. Ne venne una foto da far ingradire e mettere nella casa che affittarono insieme. Pan per la prima volta, derogò al culto sacro del bianco e nero, che lo teneva impegnato un paio di pomeriggi la settimana chiuso nel bagno del garage della nuova casa, per il piacere dei rossi maculati e dei grigi striati delle pellicce dei gatti ospiti, fuori della porta, della trattoria di una piccola e spersa frazione delle Langhe.

Comprò una macchina usata Pentax che mise nel cassetto del mobile basso, nell’angolo che si era ricavato nel saloncino del nuovo appartamento. Era tacitamente per lei. Per lei Croselin! Gliela affidò un giorno per una gita in montagna, al tempo dell’amore. Un ferragosto assolato presero la via di Jovenceau, sopra Sauze d’Oulx dove una amica di Croselin li aveva invitati. S’inoltrarono nei boschi ombrosi dietro la casa di Lorilla, dove l’odore  dei  pini  era  più forte. Croselin catturò  il  cielo  della  sua nuova felicità sdraiandosi sul tappeto d’erba e schiacciando l’otturatore rivolta alla cima degli alberi. Il cielo filtrava tra i rami in coni di luce brillanti creando una suggestiva sensazione di magico e irreale, forse di un inesistente bosco di gnomi e fatine  o semplicemente così sembrava a lei, Croselin, guardando la fotografia che ne venne, abbacinata dal suo amore per Pan.

Fu il tempo dei volumi fotografici che Pan comprava e portava a casa, delle immagini di Salgado, uomini e donne che si trascinano sacchi di sabbia  pesantissimi per l’estrazione dell’oro, della denuncia del lavoro minorile scattate con la mitica Leica.

Anche Pan si comprò una Leica.  Ne era fiero, la mostrava ad amici e conoscenti come un oggetto prezioso  che finalmente era riuscito a comperarsi, ne elogiava la qualità delle lenti, la compostezza esteriore, la maneggiabilità. E sembrava metterci ancora più impegno in camera oscura, quasi a dimostrare che con la Leica si potevano ottenere foto splendide e uniche. Forse in parte era proprio così, o forse era un momento particolare, poichè oltre al reporter per il giornale locale e l’attività a partita IVA per uno studio cittadino, lo chiamavano clienti privati per qualche servizio pubblicitario o a documentare festival estivi di teatro e di musica. Talvolta Croselin lo seguiva, per il piacere di uscire di casa insieme a lui. Si accomodava nelle prime file solitaria e oltre al vero spettacolo si godeva lo spettacolo di Pan naturalmente “preso” dalla scena, dalla luce, dall’inquadratura e dagli scatti. Le si avvicinava a fine spettacolo, semprechè un qualche conoscente, un altro fotografo non lo trattenesse a disquisire di bianco e nero, di obiettivi, di mostre, di lavori. Croselin se ne stava quieta ad aspettare per non parere una di quelle donnette  invadenti ed impazienti tutte centrate su se stesse.   

Talvolta lo aiutava a comporre un set per fotografare due bottiglie di vino o una serie di barattoli di intingoli vari commissionati da una qualche piccola cantina locale o da un agriturismo  alle prime armi.

Abbassa le tapparelle, c’è troppa luce sulle etichette – smorfiava Pan con quel suo fare un po’ incazzato che sempre lo prendeva di fronte  a un compito impegnativo. Croselin si era fatta l’idea che occorresse star zitta, lasciarlo sfogare, perchè lui Pan sapeva il fatto suo, era geniale. Lo lasciava fare in quei suoi scazzi un po’ isterici mentre predisponevano la scena: spingevano il vecchio tavolo tarlato, recuperato anni prima sul solaio di una cascina, contro l’enorme libreria stracolma, oltre che di volumi fotografici, di centinaia di romanzi. Pan riusciva a modellare l’immancabile telo nero tra la libreria e il tavolo. Arricchiva il fondale nero di teli di lino, pezzi di biancheria della nonna, foglie, cortecce, libri, altri oggetti, per creare atmosfere e contrasti a seconda della necessità e cominciava a scattare: da vicino, da più lontano, cambiando obiettivo, tirando un po’ più su le tapparelle, tornando ad abbassarle e così via.  Si rilassava solo, qualche giorno dopo, a riemersione dalla camera oscura e forse neppure: si rilassava veramente quando poteva mostrarle le foto oramai asciutte. - Sono stupende!  Guarda questo particolare, è incredibile come sia riuscito perfettamente  – commentava  Croselin se si trattava di un vasetto o di un panetto di formaggio.

Guarda l’espressione di questo personaggio! – se invece erano foto di scena.

Le foto di teatro non sono facili – cominciava Pan – occorre cogliere l’attimo, fare attenzione alle luci di scena che si riflettono sui volti e  cogliere i momenti clou della rappresentazione. Diversamente  si  portano  a  casa  immagini    che      non        sono significative, che non dicono niente… - continuava Pan lanciandosi in confronti con altri fotografi locali che tutti, a parer suo, difettavano di qualcosa o per un verso o per un altro. - Molti, quasi tutti sanno inquadrare, ma non stampare. E’ intollerabile, è come essere fotografi a metà. Non certo dei professionisti. Troppo semplice fare un click ! E’ nella camera oscura, in quella gamma di bianchi e grigi e neri da far emergere nel modo giusto,  per dare profondità all’immagine, che si misura la capacità di un vero fotografo! – s’infervorava Pan e sembrava quasi che se la prendesse con il mondo intero che non capiva e non sapeva.

Croselin assentiva e gli faceva eco rassicurandolo.

In realtà non le importava molto: essendo per natura un po’ imbranata, trovava difficoltoso anche solo cambiare il rullino alla Pentax quando d’estate se ne andavano un po’ in giro a scattare fotografie. Pan le spiegò un paio di volte come fare, ma lei era veramente un po’ imbranata, insicura e pasticciona!

Mi controlli che l’abbia inserito bene? Non ne sono sicura. – mielava Croselin

Pan le prendeva, senza dire una parola, la macchina di mano e controllava l’inserimento del nuovo rullino.

Croselin lo guardava di sottecchi e riconosceva i piccoli segnali di impazienza che a volte lo coglievano: un gesto solo poco più brusco, un alzare di sopracciglia, un “muso” tenuto per qualche tempo. Ma Croselin non ci “badava” più di tanto, lui era troppo geniale per poterlo disturbare con questioni banali, piccoli appunti di donnetta centrata su se stessa.

Intanto il mondo avanzava e sempre più si parlava di digitale. Lo studio dove Pan lavorava a partita IVA cambiò le vecchie machine analogiche in nuove reflex digitali. Pan ne era assolutamente contrario e non mancava occasione di criticare il nuovo indirizzo dello studio. Ma, anche se a malincuore, ad un certo punto fu costretto all’acquisto di un nuovo corpo macchina e relativi obiettivi per poter stare dentro alla storia e nel mercato del lavoro, che nonostante i suoi convincimenti, totalmente andava trasformandosi.

Dismise progressivamente la camera oscura dimenticandoci dentro, penzolanti da un vecchio appendiabiti di legno,  decine di pellicole che sicuramente avrebbe prima o poi ritirato, messo ad archivio negli album appositi che gironzolavano per casa e invadevano un intero scaffale dello studio.

Croselin provò una sorta di leggero piacere al pensiero di un Pan non più inghiottito nella camera oscura per ore e ore della domenica pomeriggio, quando sviluppava e stampava per il giornale locale, ma naturalmente tenne per sè le proprie insignificanti considerazioni di donnetta per non appesantirgli la vita e la genialità.    

L’attività di Pan cambiò effettivamente. Si chiuse sempre più di fronte al grande computer, che già possedeva, organizzandosi una nuova vita che prevedeva l’intera mattinata davanti allo schermo,  l’attività nello studio fotografico di pomeriggio, le sere e il fine settimana per il giornale. 

La post-produzione divenne il perno attorno a cui ruotava il tempo di Pan giacchè, oltre ad essere un bilioso, era un tipo puntiglioso, molto preciso, a cui piaceva essere preparato, più preparato degli altri. - La tecnica è essenziale, nessuno legge neanche il foglietto d’istruzioni della propria macchina fotografica e perciò non sa neppure come usarla realmente - era solito dire tornando a scagliarsi contro gli incompetenti e i dopolavoristi che sempre   più

affollavano come una malerba la realtà locale.  Nel frattempo continuava a trascorrere il suo tempo in prove di stampa nell’improbabile intento di perseguire la perfezione.    

  - Vieni ti faccio vedere cosa si può fare con Photoshop – l’apostrofava, di tanto in tanto, riemergendo dal suo schermo gigante e Croselin pazientemente si metteva in ascolto di una lezione sui livelli, sui ritocchi, sul pennello correttivo, sulle luci e sulle ombre, sulle curve, sul bilanciamento colore ricavandone, ad un certo punto, una gran confusione, un totale disorientamento, un bagaglio di nozioni teoriche appiccicate nella testa che sicuramente avrebbe dimenticato di lì a poco preparando la cena. Si era fatta l’idea che il tutto fosse troppo complicato da imparare per lei che di professione non faceva la fotografa e che con il computer smanettava da poco tempo, più per una sopraggiunta necessità professionale che per un vero interesse personale.

  Un giorno per caso si accorse che la Pentax e i suoi obiettivi non erano più nel cassetto d’angolo del saloncino di casa. Subito intuì che Pan aveva venduto la “sua” macchina fotografica o quella che aveva creduto sua, così come aveva venduto le altre vecchie  analogiche, compresa la Leica a cui tanto teneva.  Lo aveva fatto senza dirle neppure una parola come se avesse realizzato che a lei non importasse niente della fotografia e di una macchina fotografica.  Ne provò una sottile delusione, pensò ad una sorta di disamore nei suoi confronti.

Quella sera si rese conto che Pan già da tempo non si coricava più con lei, come nei primi anni, ma si attardava sempre più davanti al computer per un servizio che doveva ancora scaricare, per qualche negativo che voleva trasformare in digitale, per qualche foto vecchia, stropicciata e mal ridotta che qualcuno gli aveva data da scannarizzare e riportare per quanto possibile ad antichi splendori.

  L’abitudine ad attardarsi divenne presto una sorta di insonnia che lo coglieva dopo aver dormito poche ore, vinto dalla stanchezza. Era al mattino che tardava a risvegliarsi. Croselin lo lasciava addormentato posandogli la tazzina con il caffè sul comodino, sicura che si sarebbe raffreddato, e se ne usciva per l’ufficio.

Tornava trafelata con la fretta di preparare una parvenza di pranzo e trovava Pan davanti al computer intento in chissà quali importantissimi lavori. Si levava infine ai suoi richiami - E’ in tavola! - lamentando dolori alla nuca, cervicali perniciose, inappetenze svogliate, problemi digestivi e un certo mutismo di fondo, talvolta scontroso.

Il pomodoro mi fa acido, preferisco non mangiarlo - farfugliava sedendosi a tavola

Il risotto non lo digerisco, mangio un pomodoro con un po’ di sale – cominciò a dire Pan sempre più spesso. 

Croselin prese a “badarci”, a collezionare in silenzio i segni del disamore.

Un poco preoccupata, un poco seccata insistette molto per organizzare un viaggio. Un viaggio da qualche parte, lontano dal computer avrebbe fatto certamente bene ad entrambi!

Decisero per un economico viaggio in Ungheria, senza strafare, poichè a Pan il lavoro scarseggiava nonostante fosse tutti i giorni della settimana completamente impegnato a casa e allo studio e per il giornale.

Mi farò prestare la piccola compatta di Maurilla, tanto per fare qualche foto anch’io - buttò lì, ma Pan non sembrò raccogliere la provocazione e Croselin  non insistette più di tanto.

Budapest aveva i colori e il freddo pungente dell’inverno, giornate corte e grigie e molti interni illuminati dal giallo delle lampade, troppo impegnativi per la sua economica compatta, mai usata prima

e presa a prestito da Maurilla. Se ne rese conto ritornati a casa  pochi giorni dopo, quando Pan installò sul suo portatile comprato di seconda mano, Photoshop Element e la lasciò alle sue fotografie rituffandosi nelle abituali attività. E Croselin, quasi si fosse trattato della prova della vita, cominciò ad armeggiare sulle tonalità scure delle sue fotografie, sui colori dei cavalli ripresi all’imbrunire in uno dei centri ippici ungheresi, spettacolo di cavalieri, carri e cavalli predisposto per i turisti impacchettati dei viaggi organizzati.         

- Certo che finchè continuerai ad utilizzare il sistema operativo che hai sul tuo portatile, non potrai capire la fotografia digitale – sentenziò Pan buttando l’occhio, su sua richiesta, alle foto dell’Ungheria  – quel miserrimo schermo non ti consente di vedere i colori. E furono, Croselin lo capì senza dubbi, parole definitive. Ripassò le fotografie una ad una, i colori le sembrarono troppo spenti e li riprese nuovamente, ma divennero troppo intensi, cupi. E più tentava di venirne a capo, più li sfalsava  completamente. I verdi divennero blu e i gialli arancio.

Croselin si convinse di non essere adatta per la fotografia: nonostante la buona volontà e l’impegno profuso per tutte le sere di una settimana le foto erano decisamente brutte. Si decise infine ad arrendersi, consapevole di essere arrivata anche alla fine di un amore. Stava, la fine dell’amore, nell’indifferenza e nel silenzio, in un sorta di isolamento di Pan dentro la casa.

Vai tu a cena con Laudomia e gli altri. Io non ne ho voglia, resto a casa – Ho troppo da fare questo fine settimana – Non mi sento di cenare, prendo più tardi un po’ di latte -  cominciarono ad essere le frasi ricorrenti che accompagnavano nuovi malanni, questa volta alla schiena,  sempre più intensi e prolungati, da curare con il fai da te degli antinfiammatori.

Dovresti farti vedere da un medico, se vuoi ti ci accompagno - si azzardò a dire Croselin, ma Pan si girò dall’altra parte infastidito.

Passarono i mesi mentre l’agonia del disamore non accennava a terminare, anzi Pan se ne stava il più del tempo sdraiato sul divano di casa in preda alle nausee e al mal di stomaco che i farmaci gli procuravano. Infine Croselin si decise per entrambi e gli disse che era tempo di separarsi. Pan la guardò solo un istante, poi si girò dall’altra parte.

  Prima ancora che avessero cambiato casa, dopo neanche un mese,  l’amica Maurilla le fece la cortesia di dirle di aver visto una sera Pan in una pizzeria in atteggiamenti sentimentali con una fotografa.

Lei Croselin, sistemandosi in una nuova casa, si comprò un vero computer e una compatta decente, dieci megapixel, 35 mm e zoom… . Prese a fotografare uccelli ed alberi, nuvole e fiori, vicoli e portali con la leggerezza di una dilettante su cui non incombeva il giudizio del “maestro” e imparò pure qualcosa di fotoritocco, quel poco che occorre a dare brillantezza ai colori o a cancellare gli occhi rossi.

Di lui le rimase una grande fotografia, 30 x 24, in bianco e nero fatta da un amico fotografo una sera d’estate: un ritratto quasi in posa del “maestro” con la reflex appoggiata nell’incavo del collo, la testa un po’ inclinata, lo sguardo diretto al lato opposto.

Una splendida foto d’autore.