Officina delle immagini, Maria Orioli recensione

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 fotografie di Maria Orioli

 

           recensioni

Tra il battere e il levare di una nota c'è un istante, impercettibile infinitesimale  in cui il tempo musicale rimane sospeso in un silenzio di  metafisica natura. Tra l'occhi che vede e la mente che elabora un'immagine c'è un attimo riconsegnato alla memoria delle cose.

Questo è il senso delle fotografie di Maria Orioli: il senso della memoria che fluisce sotterranea nei meandri dell'intelletto e che riaffiora di fronte alla fisicità oggettuale del reale. Sono - le sue fotografie- piccole sospensioni di uno spazio conosciuto e fruito in quei rii e in quei campielli veneziani fin dalla adolescenza.

Sembra di riascoltare di fronte alle sue gondole, alle sue finestre, alla sua umanità la straordinaria analisi di Giovanni Macchia quando, ormai nel lontano 1947, ebbe a scrivere che gli oggetti delle opere di Vermeer sono "immerse (...) nel silenzio, come in un elemento, in un liquido immateriale che li ricopre e li rifonde nell'atmosfera luminosa".

Ecco, il silenzio torna; torna come distacco e aristocratica rarefazione di sensazioni e di spazi, quasi in un esercizio di bergsoniana involontaria memoria.

Le fotografie di Maria Orioli, alla maniera di una rappresentazione proustiana, redicono una trama e un ordito di immagini così fortemente icastiche che nella loro cristallizzazione sono rievocatrici del mondo delle cose sensibili, della veneziana "grandeur" della Serenissima.

In quegli attimi rubati alla luce, si imprime quindi sulla pellicola di Maria l'arte di ritrovare il passato fatto di segni    misteriosi e nascosti, di una colta e commossa ricerca  di     un tempo perduto.

E come in una pellicola di Ejzenstein o in un film di Truffaut, noi siamo, lì, incantati a guardare questa perfetta, e quasi fantomatica, essenza segreta del reale

 

Consuelo Lollobrigida