Alessio Casari

Alessio Casari

Fotografie

 

        racconti

Il telefono squillò e la donna, una casalinga di trentacinque anni, andò rispondere.

“Ah, sei tu?”

“Sì, sono io. Come va, bambina?”

“Come vuoi che vada, mamma. Come al solito, va.”

“E Marco? Si è ripreso? O ha ancora la febbre?”

“Sembra che stia meglio di ieri. Oddio, è ancora sdraiato a letto, non vuole alzarsi. Oggi è venuto a trovarlo il bambino che abita di fianco a noi, Massimo. E’ ancora di là con lui, ormai sono tre ore che vanno avanti a chiacchierare. Cosa vuoi farci, mamma. Sai, se non sta bene una non può mica obbligarlo a… certo, lo so anch’io che dovrei insistere di più, però ogni volta che cerco di parlarci lui inizia a urlare… Ma no, mamma, non dipende da questo; d’altronde suo padre viaggia da quando lui aveva quattro anni, dovrebbe esserci abituato, ormai. Sì, lo so anch’io che sarebbe meglio se suo padre restasse qui con lui… non pensare che a me faccia piacere averlo sempre lontano. Certo, mamma, certo. Cercherò di parlargli. Certo, sì, certo.”

Massimo prese un gran volume dalla scrivania del ragazzo. Freud: scritti sulla nevrosi. Massimo aveva compiuto tredici anni a marzo, e ora si era a dicembre.

“Marco,” domandò il bambino, “chi è Freud?”

Marco era sdraiato sul letto. Accanto al letto c’era un comodino. Sul comodino, c’era una boccia di sciroppo che, semitrasparente lasciava a mala pena intravedere il contenuto vermiglio; un libro di Storia della Filosofia Contemporanea; un Topolino; un foglio di carta e una penna rossa.

“Mr Freud?” domandò a sua volta Marco. “Tu vuoi davvero sapere chi essere Mr Freud? Accidenti! Tu essere ragazzo che vuol avere grante cultura!”

Massimo scoppiò a ridere. Se c’era qualcosa di buono a stare con lui, pensava Marco, era questo: ci voleva poco a farlo ridere.

Uggiosa era la giornata fuori dalla finestra: il paesaggio nero, gli alberi spogli, la pioggia non avrebbe tardato. Ma dentro la cameretta si diffondeva una temperatura tiepida e piacevole: e la radio che andava, la sedia di legno dove Massimo era seduto, il letto di Marco, le coperte colorate, i poster, la libreria piena di volumi, il tappeto rosa, offrivano un’atmosfera non disprezzabile e ovviamente, più peggiorava il tempo di fuori, più diventava esso deprecabile, più tale deliziosa atmosfera cresceva per contrasto.

“Ti senti ancora la febbre?” chiese il bambino a Marco; “ti sembra ancora di scottare?”

Marco si appoggiò una mano alla fronte. “No,” disse, “assolutamente no. Anzi,” aggiunse poi, “è da quattro giorni che non ho più una linea di febbre.”

“Ah sì?” domandò Massimo con un po’ di stupore, “e allora perché resti a casa?”

“Questo,” disse Marco, “è un mistero.”

“Non lo so mamma,” mormorò la donna alla cornetta del telefono, “non si tratta tanto dei suoi voti a scuola, che non sono mai stati un granché, benché si siano mantenuti sempre sulla sufficienza; è piuttosto il comportamento nei miei riguardi, che sta diventando sempre più irriverente. Ieri mi ha addirittura insultato. No, non sto scherzando. Sì, sì, mi ha insultato. E cosa vuoi che abbia fatto? Mi ha fatto talmente uscire dai gangheri che mi è scappata una sberla. Sì, dopo me ne sono pentita… però, capirai, io posso sopportare la sua maleducazione fino a un certo punto… E da ieri, da quanto gli ho dato quella sberla - che poi, ti assicuro, assomigliava molto di più a una carezza - non mi ha più parlato. Certo che ho tentato di fare io il primo passo, anche perché ho ben altro a cui pensare, non posso stare sempre dietro a lui. Sì, hai indovinato: tiene il broncio come i bambini. Comunque, secondo me ha ragione Giovanni, quando dice che se non si mette in riga colle buone, allora forse dovremmo usare le cattive. No mamma, cosa ti viene in mente… pensavamo di cambiarlo di scuola, questo sì. Metterlo in un collegio, dove lo controllerebbero con più attenzione… Solo che per metterlo in collegio ci vorrebbero dei soldi, hanno delle rette abbastanza salate… Insomma, cosa vuoi che ti dica, ne riparlerò con Giovanni quando ritorna. Dovrebbe ritornare a giorni.”

“Marco, cosa sono quei segni che hai intorno al collo?” domandò il bambino.

“Quali segni?” domandò Marco.

“Quelli che hai intorno al collo. Sono viola.”

“Ah,” disse Marco, “ho dei segni viola intorno al collo? Non è niente, comunque. Ieri ho bisticciato colla mamma. Mia madre non sopporta di essere criticata: è questo, forse, il suo difetto peggiore.”

“Vi siete picchiati?” domandò Massimo, estremamente incuriosito.

“Abbiamo avuto una piccola discussione. Vedi: io e lei abbiamo due visioni leggermente diverse sulla vita. E’ un discorso molto lungo, non starò qui a spiegarti… Sostanzialmente, lei pensa di essere saggia quando non sa che divertirsi. Io penso di essere saggio quando non so che riflettere.”

“Cosa vuol dire, questo?” domandò Massimo.

“Non lo so nemmeno io,” disse il ragazzo, un po’ pensieroso.

“Marco,” disse poi il bambino.

“Eh,” mormoro lui.

“Posso farti un'altra domanda?”

“Certamente.”

“Tu quanto ce l’hai lungo?”

“Il dottore pensa che abbia un po’ di esaurimento,” disse la donna, “e io penso che abbia ragione. E’ esaurito, mamma, dovresti sentire che discorsi fa. Sulla moralità, sull’immoralità, sull’esistenza di Dio e dell’inferno… Ma non lo so perché parla di queste cose, mamma! Se lo sapessi, io e te non saremo qui a discuterne, scusa! In ogni caso, c’è qualcosa che non va, questo è innegabile. Sto pensando di consultare uno psicologo, seriamente…”

“Non molto,” disse Marco. “Ma quanto ce l’hai lungo non conta molto, con una donna…”

“Veramente?” domandò il bambino, cercando di non perdere il filo del discorso: ci si inoltrava in un argomento interessante. “E allora cosa conta?”

“Non l’ho ancora capito,” disse Marco, “forse la menzogna, o meglio, l’illusione. Le donne devono sempre illudersi di qualcosa. Sono delle grandi sognatrici; però, ogni strada che conduce al sogno deve passare per una concreta materialità. Nel migliore dei casi, questo non danneggia nessuno: nel peggiore, qualcuno può rimetterci le penne.”

“Può restare ucciso?” domandò il bambino.

“Certo, almeno da un punto di vista spirituale.”

“Non sto perdendo le staffe, mamma. Sto solo dicendo che rischio di perderle se la situazione va avanti così. Bisogna che anche Giovanni prenda delle decisioni concrete. D’accordo i suoi viaggi e tutto il resto, però non può scaricarmi la responsabilità di allevare un figlio ancora piccolo…”

“A te piacciono molto, le foto?” domandò il bambino.

“Perché me lo domandi?”

“Perché questa stanza è piena di foto.”

Massimo aveva ragione: c’erano foto da tutte le parti, nella stanza di Marco. Alcune erano attaccate direttamente al muro col nastro adesivo, altre erano state accumulate sulla scrivania, sparpagliate ovunque. C’erano foto di cani, gatti, persone, alberi, tramonti. C’erano foto di amici, di pareti, di sconosciuti.

“Già,” disse Marco con gli occhi fissi al soffitto; “hai ragione. Fotografare le cose mi è sempre                                       piaciuto. E poi, vedi, le foto hanno una loro autorità, una loro autonomia. Una cosa fotografata esiste ed è, ad ogni modo, inconfutabile. Per questo le foto non fanno piacere a tutti. Una persona brutta in genere non vuole essere fotografata. Una foto è un elemento certo, una verità. E c’è chi preferisce ignorare la verità. Dammi retta. Imparerai anche tu quanto sia piacevole ignorare la verità in certi casi, chiudere gli occhi.”

“No, non sono spaventata, mamma. E’ solo che non mi sembra più il ragazzo di una volta. Sono preoccupata per lui. Mi sembra che il nostro rapporto sia peggiorato, e non capisco perché. Cioè, voglio dire, non è successo niente tra di noi… forse sente la mancanza di suo padre, non lo so, può anche darsi che tu abbia ragione…”

“Però, stai attento,” disse Marco guardando, da sdraiato, il bambino negli occhi, “perché anche le foto possono mentire. Non lo fanno sempre, però qualche volta mentono. E sai come fanno a mentire, le foto?” domandò il ragazzo.

“No,” disse Massimo.

“Quando non dicono nulla di quello che dovrebbero dire. Adesso ti voglio far vedere una cosa.”

Il ragazzo si alzò dal letto; raggiunse la scrivania; frugò tra le foto e, dopo un attimo di esitazione ne estrasse due, e le mostrò al bambino.

La prima e la seconda foto mostravano due uomini.

“Guarda attentamente queste foto,” disse Marco sorridendo, “e dimmi cosa vedi. Anzi, te lo dico io, cosa vedi; non ho bisogno che me lo dica tu. Vedi due uomini. Si assomigliano molto, non è vero?”

“Sì,” disse Massimo guardando attentamente le due foto. “Sì, si assomigliano molto.”

“Certo, mamma, anche io ho bisogno di riposarmi; e chi non ne ha… Sono molto stressata, ultimamente… No, con Giovanni va tutto bene, per carità… Lui sgobba come un mulo, poveretto, fa tutto quello che può. E poi che colpa ne ha, se è costretto a viaggiare avanti e indietro? Speriamo solo che l’anno prossimo riesca a ottenere la promozione… non tanto per lo stipendio, sai, che non cambierebbe molto, ma perché potrebbe restare a casa di più. Tu non sai nemmeno quanto mi manca, a volte…”

“In questo sta la menzogna,” disse Marco, “perché questi due uomini sono completamente diversi, anche se hanno lo stesso sorriso, la stessa altezza, e gli occhi dello stesso colore. Uno dei due è un uomo finito, l’altro no. Uno è cieco, l’altro ci vede benissimo. Uno ha già camminato abbastanza, l’altro sta riprendendo a camminare. Vedi, queste foto non dicono nulla. Per questo, in qualche modo, mentono.”

“Marco,” disse il bambino indicando una foto col dito, “ma questo non è tuo padre?”

“No,” disse il ragazzo tornando a guardare il soffitto, “è solo la sua ombra.”

“Va bene, mamma, dai; devo andare a preparare la cena. Non ti preoccupare, sono tranquillissima.  Lo so, lo so; cosa ci vuoi fare… speriamo che le cose si risolvano da sole… va bene. Se mi serve aiuto ti telefono… Ciao, mamma, ciao.”

La donna abbassò la cornetta; bussò alla porta; entrò nella camera di suo figlio.

Trovò il ragazzo e il bambino seduti sul letto, come due giovani confabulatori.

“Come stai, Marco?” domandò stancamente. Solo dopo vide le foto.

“Sto ancora malissimo, mamma.”

“Cosa state facendo?” domandò la donna, torcendosi le dita delle mani.

“Niente, mamma; non stiamo facendo niente. Mostravo a Massimo alcune foto. Ma non ti preoccupare. Non sono le foto speciali.”

“Ho capito,” mormorò la donna, e restò ferma, come soprappensiero.

Il bambino capì che era ora di togliere le tende. Peccato, perché la situazione si faceva interessante.

“Io deve andare, Marco.”

“Di già?” domandò il ragazzo.

“Sì. Devo ancora fare i compiti.”

“Va bene. Viene a trovarmi quando vuoi.”

La mamma di Marco accompagnò il bambino fuori dalla porta, poi ritornò nella camera del figlio. Vi entrò colle lacrime agli occhi.

Si sedette lì, sul letto, proprio accanto a Marco.

“Che foto gli stavi mostrando, eh? Puoi dirmelo, ora.”

“Non mi irritare, mamma. Erano delle foto normalissime.”

“Sei sicuro?”

“Certamente. Una foto del papà e una di Maurizio. Stavo pensando, proprio questo pomeriggio, alle loro differenze. Chi dei due è il più soddisfacente?”

“Ti prego, Marco; adesso coricati a letto. Sei molto stanco.”

“Perché piangi? Non hai un motivo per piangere. Almeno che nessuno dei due riesca a soddisfarti. Comunque, non ti devi preoccupare per me. Lo so benissimo, vedi, che ti preoccupi per me. Non so nemmeno io che cosa abbiamo tentato di fare ieri. Io non volevo picchiarmi col tuo uomo. Ma è stato lui, a cominciare, a minacciarmi. E tutto questo per due semplici foto. Come se io avessi colpa per la verità che nascondono. Allora, chi dei due ti soddisfa di più?”

La donna non fiatò. Suo figlio era un mostro, doveva farne le spese.

“Non mi rispondere,” disse Marco. “In fondo non mi interessa. Domani resterò a casa da scuola e anche dopodomani. E poi ho deciso di cambiare motorino, meglio che te lo dica subito. Tanto i soldi non ti mancano, è vero? O devo chiederli al papà?”

La donna scappò dalla camera.

E’ stupefacente, pensò Marco, quanto una donna possa pagare per un singolo sbaglio.